
Mauro Maffezzoni, Pop al minimo.
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VISIONI IRREQUIETE
16 Maggio 2019Mostra a cura di Valentina Muzi
16 marzo | 30 marzo 2019
Indiscutibile è l’interesse di entrambi, Giorgio Brina e Simone Novara (bn+), circa il problema che si
articola attorno alla domanda ‘quanti luoghi può vivere un’immagine?’ e al relativo approccio alla sua
soluzione. Un luogo è una porzione di spazio-tempo codificato, un involucro entro il quale transitano
informazioni, ricordi e immagini. L’attenzione della ricerca di bn+ è di collocarsi proprio nel processo
del transito. Sin dalle prime esposizioni hanno scelto di utilizzare oggetti noti al pubblico, facilmente
riconoscibili, ma non altrettanto ben decodificabili. La decodifica porta a porsi dei quesiti, gli stessi che
i bn+ cercano di risolvere trovando sempre nuove chiavi di lettura e nuovi spunti per il loro percorso
creativo. Per esempio in Trans-sculptures i cuscini vestono i panni della statuaria antica. Torsioni e
piegamenti sono resi con estrema precisione dagli artisti per rendere le opere da cui traggono
ispirazione un po’ più vicine, un po’ più familiari al nostro inconscio. La Sfinge, Dioniso bambino,
Ermes che si allaccia il sandalo e Ermes con Dioniso bambino sono come cristallizzati nella
morbidezza data dalle pieghe del finto tessuto, una distorsione che s’innesca anche nell’illusione creata
grazie all’utilizzo di materiali come: resina epossidica, resina poliestere, colori acrilici e smalti. Tale
caratteristica la ritroveremo in Gusti assortiti in proporzione variabile e in Animal Farm.
In quest’ultimo caso l’indagine condotta dai bn+ pone il focus sui trofei -demistificandoli- partendo
sempre da riferimenti storico-artistici e letterari ben saldi. In questo caso ritroviamo Albrecht Dürer per
quanto riguarda l’approccio formale e George Orwell dal punto di vista concettuale e critico. Di Dürer
viene ripreso il metodo realista con il quale rappresentava il mondo animale. Disegni estremamente ben
fatti che ne evocavano il manto, la struttura, la fisionomia e le proporzioni. Con Orwell si passa invece
al piano critico-concettuale ritrovando nella lettura dello storico scrittore un’analisi della società che,
ancora oggi, sembra non aver trovato il suo naturale equilibrio sulla base di valori umani ed egualitari.
La demistificazione del trofeo si evince anche nella particolare posizione in cui si trovano i colli, focus
dell’indagine artistica. Se nei comuni cimeli di caccia le teste sono rivolte verso l’alto, in simbolo di
fierezza e austerità, qui sono rivolte verso il basso. Una decadenza concettuale che si vuol sottolineare
passando per il posizionamento strutturale dell’opera. Un declino che si prostra alle contingenze
storico-culturali quotidiane cercando di toccare il fondo per poi riemergere.
Ricordiamo Ernst H. Gombrich ne A cavallo di un manico di scopa, saggi di teoria dell’arte:
“Sappiamo che si tratta solo di un’ombra, di un appunto che fissa ciò che l’artista ha visto o avrebbe
potuto vedere, e siamo dispostissimi a partecipare al gioco e completare quell’ombra con la nostra
fantasia, aggiungendovi i tratti che, come sappiamo, l’oggetto vero certamente possedeva. Ma se
accettiamo l’idea con tutto ciò che ne deriva, che un quadro suggerisce qualcosa al di là di ciò che
effettivamente mostra (e non è certo un’idea che possa balenarci dall’oggi al domani), allora siamo
costretti a dare via libera alla nostra fantasia. Intorno alle forme vediamo lo “spazio”, ossia, in altre
parole, comprendiamo che la realtà evocata dal quadro è a tre dimensioni, che l’uomo raffigurato vi si
potrebbe muovere, e che perfino il suo lato nascosto, in realtà “c’è” (…)”
In quello stesso spazio che cita Gombrich, “dove l’uomo potrebbe muoversi”, nei bn+ l’uomo c’è e si
muove per davvero, guidato dalla fantasia che attinge direttamente dalla sfera mnemonica, la stessa che
gli artisti vogliono toccare ed esorcizzare dando vita a tanti luoghi in cui le opere si ri-disegnano, si
ravvivano. Proprio come in un gioco sì, ma in un gioco per adulti.