
Galleria Monopoli ad ARTE FIERA BOLOGNA
3 Maggio 2022
Cesare Peverelli. MATERIALI PER SALOME’
13 Settembre 202225 maggio - 30 giugno 2022
a cura di:
Flaminio Gualdoni

Nicoletta Borroni ha bisogno di esattezza. Ogni passaggio, ogni bivio di scelta, scaturisce da un calcolo preciso. Tuttavia, ciò che non senti nel suo lavoro è proprio il calcolo, e piuttosto la decantazione sino all’essenziale del processo di pensiero che si fa forma, e immagine.
Ciò che Borroni mette in campo in questa rara uscita pubblica, figlia di molti anni di un lavoro “matto e disperatissimo”, è la meditatissima distillazione dei mille problemi di spazio, di luogo, che l’artista affronta nei suoi ragionari ad ampio spettro, e che rastrema sino a una forma a suo modo ultimativa.
Borroni ha scelto la via della realizzazione di oggetti pittorici. Il che significa che l’objecthood pittorica è di per sé qualcosa che irrompe nella nostra percezione, e idea, di luogo, come una presenza modificante e in grado di determinare l’insieme, di qualificarlo su un diverso piano di esperienza. Ha, in altri termini, spostato la finzione della pittura dal piano storicamente separato dall’ordinario – il quadro – al piano concretamente fisico del percepire.
Non le serve, per altro verso, dar corso alle effusioni, ché il lavorio emotivo è avvertito e macerato sino all’estremo in cui perde ogni facoltatività, ogni impurità soggettivistica: ma tale lavorio emotivo lo si sente pur vivo, e ben presente.
La selezione, attenta, maniacale verrebbe da dire, dei toni cromatici che usa, a cominciare dalla scala sottilissima dei blu, non crea uno spalto visivo respingente, è un plesso morbido e come dotato d’una interna respirazione, non è serrare algidamente la forma ma offrirle, e offrirsi, una prospettiva di lettura felicemente meno ortodossa.
Borroni parte da shapes compatte, come geometrie che alla prima parrebbero autosufficienti e introverse. Le Sagittae, ultime o penultime tra le sue esplorazioni, abitano l’orizzontalità della parete facendosi vettori diversi di visione, aprendosi addirittura a un ripensamento della ragione dello spazio chiuso rispetto all’aperto naturale al quale paiono tendere. Ma sono forme al loro interno composite, offrono e chiedono anche una visione ravvicinata e diversa, in cui cruciale è la contiguità dei toni, lo sfondamento prodotto dal loro alitare: e, soprattutto, quell’ineffabile senso che offre la consapevolezza che nulla è, in loro, della dura logica del size e molto invece della proporzione, della commensuratio capace di configurare non dimensioni ma qualità.
Certo, Borroni sa bene che questa è una via non inedita dell’avanguardia. Ma, posto che il suo lavoro è saldamente collocato fuori dai termini angusti e per molti versi impropri dell’avanguardia, la sua pittura architettante a ben altro mira: a rileggere nel profondo gli umori che sono stati di un Victor Pasmore e di un Rodolfo Aricò, giusto per fare due esempi tra i possibili: segni chiari, comunque, che per lei vale l’adagio di Mies van der Rohe, per cui “è meglio essere bravi che essere originali”.
Borroni, di suo, è molto, molto brava.